"Coincidenze - tracce d'identità", testo critico, 2013
Per Silvano Bruscella, Coincidenze
Francesco Porzio
Silvano Bruscella è un artista dotato; se le vicende personali e professionali non lo avessero ostacolato troppo spesso nell’esercizio quotidiano della pittura, sono convinto che avrebbe raggiunto ancor prima la maturità espressiva che dimostra in questi dipinti. Mi ha sempre colpito, nel suo lavoro, la sicurezza con cui ha scelto di collocarsi in una prospettiva autenticamente moderna (siamo nel XXI secolo, ma non trovo ancora un termine migliore), individuando le fonti migliori a cui poteva attingere e scartando senza esitare le astuzie di molta arte contemporanea. E’ un segno di intelligenza di cui bisogna dargli atto; anzi, viene da chiedersi che cosa avrebbe fatto un pittore così lucido in un momento storico favorevole agli artisti e non, come quello attuale, tagliato su misura per i “creativi” e i pubblicitari. E’ soprattutto per via di questa lucidità che le sue opere hanno attirato subito la mia attenzione. Perché una scelta del genere equivale a un atto critico, paragonabile ad alcune idee che avevo provato a formulare con le parole: cercare cioè quell’attacco, quel punto di sutura necessario per ricollegarsi a una tradizione vitale, indispensabile ancora oggi, ma da troppo tempo frantumata e dispersa. Anche se il connubio fra crudo infantilismo e ironia nei confronti della società di massa che mostrano questi dipinti sembrerebbe confermarlo, non vorrei semplificare troppo le cose dicendo che quel punto si colloca all’incirca fra l’esplosione dell’art brut e la nascita della pop art. Troppa acqua è passata sotto i ponti, e perciò il riattacco non potrà che essere mediato, alterato da situazioni e sentimenti molto diversi; com'è infatti nel caso di questi quadri, che a tratti rivelano un sarcasmo allucinato, figlio non illegittimo di questi anni difficili e senza mete.
Dicevo che Bruscella è un artista dotato; per spiegarmi meglio, impiegherò un’espressione sportiva e dirò che possiede “i fondamentali” della pittura. Un tempo questa dote era richiesta a chiunque aspirasse a entrare nella squadra delle cosiddette “avanguardie” (persino nelle divisioni minori); oggi a quanto pare non è più così, anzi parrebbe persino d’ostacolo; o forse, più semplicemente, nessuno è interessato a valutare simili qualità perché ne sono richieste altre di altra natura, come la facile presa e la vendibilità. Potrà sorprendere, ma tra i “fondamentali” a mio parere non vanno considerati soltanto la coerenza e l’incisività del segno (una dote che Bruscella ha acquisito attraverso la pratica ininterrotta del disegno), il faticoso equilibrio fra la spontaneità e il controllo critico (che scaturisce appunto dalle “coincidenze” che occorrono sulla tela), il continuo affinamento tecnico (il collage, già sperimentato in passato, s’integra qui al segno d’impronta grafica e alle luminose campiture cromatiche, caricandole di significato), il senso vivo della composizione e del colore – tutte qualità che Silvano possiede in grado elevato -, ma anche, forse soprattutto, l’orientamento essenziale nei confronti di valori umani e di pensiero, senza i quali l’arte non sarebbe che decorazione. Orientamento che, tuttavia (ciò che non sembra molto chiaro ad alcuni suoi colleghi impegnati “nel sociale”), gli artisti dovrebbero esprimere utilizzando soltanto i mezzi propri dell’arte.
Ebbene, mi pare che Bruscella esprima questo orientamento essenziale in un “disagio della civiltà”, nel rifiuto di una comunicazione apparentemente seduttiva – ma in realtà violenta e totalizzante - che riduce gli uomini a consumatori. Bruscella ne sfronda gli allori, ci mostra che l’antropologia della società che essa pretende di rappresentare è di natura quasi opposta, tutt’altro che tranquillizzante. In questo senso i suoi graffiti grotteschi fotografano una realtà oggettiva, raccontano in modo veritiero la nostra vita quotidiana.
Francesco Porzio
Silvano Bruscella è un artista dotato; se le vicende personali e professionali non lo avessero ostacolato troppo spesso nell’esercizio quotidiano della pittura, sono convinto che avrebbe raggiunto ancor prima la maturità espressiva che dimostra in questi dipinti. Mi ha sempre colpito, nel suo lavoro, la sicurezza con cui ha scelto di collocarsi in una prospettiva autenticamente moderna (siamo nel XXI secolo, ma non trovo ancora un termine migliore), individuando le fonti migliori a cui poteva attingere e scartando senza esitare le astuzie di molta arte contemporanea. E’ un segno di intelligenza di cui bisogna dargli atto; anzi, viene da chiedersi che cosa avrebbe fatto un pittore così lucido in un momento storico favorevole agli artisti e non, come quello attuale, tagliato su misura per i “creativi” e i pubblicitari. E’ soprattutto per via di questa lucidità che le sue opere hanno attirato subito la mia attenzione. Perché una scelta del genere equivale a un atto critico, paragonabile ad alcune idee che avevo provato a formulare con le parole: cercare cioè quell’attacco, quel punto di sutura necessario per ricollegarsi a una tradizione vitale, indispensabile ancora oggi, ma da troppo tempo frantumata e dispersa. Anche se il connubio fra crudo infantilismo e ironia nei confronti della società di massa che mostrano questi dipinti sembrerebbe confermarlo, non vorrei semplificare troppo le cose dicendo che quel punto si colloca all’incirca fra l’esplosione dell’art brut e la nascita della pop art. Troppa acqua è passata sotto i ponti, e perciò il riattacco non potrà che essere mediato, alterato da situazioni e sentimenti molto diversi; com'è infatti nel caso di questi quadri, che a tratti rivelano un sarcasmo allucinato, figlio non illegittimo di questi anni difficili e senza mete.
Dicevo che Bruscella è un artista dotato; per spiegarmi meglio, impiegherò un’espressione sportiva e dirò che possiede “i fondamentali” della pittura. Un tempo questa dote era richiesta a chiunque aspirasse a entrare nella squadra delle cosiddette “avanguardie” (persino nelle divisioni minori); oggi a quanto pare non è più così, anzi parrebbe persino d’ostacolo; o forse, più semplicemente, nessuno è interessato a valutare simili qualità perché ne sono richieste altre di altra natura, come la facile presa e la vendibilità. Potrà sorprendere, ma tra i “fondamentali” a mio parere non vanno considerati soltanto la coerenza e l’incisività del segno (una dote che Bruscella ha acquisito attraverso la pratica ininterrotta del disegno), il faticoso equilibrio fra la spontaneità e il controllo critico (che scaturisce appunto dalle “coincidenze” che occorrono sulla tela), il continuo affinamento tecnico (il collage, già sperimentato in passato, s’integra qui al segno d’impronta grafica e alle luminose campiture cromatiche, caricandole di significato), il senso vivo della composizione e del colore – tutte qualità che Silvano possiede in grado elevato -, ma anche, forse soprattutto, l’orientamento essenziale nei confronti di valori umani e di pensiero, senza i quali l’arte non sarebbe che decorazione. Orientamento che, tuttavia (ciò che non sembra molto chiaro ad alcuni suoi colleghi impegnati “nel sociale”), gli artisti dovrebbero esprimere utilizzando soltanto i mezzi propri dell’arte.
Ebbene, mi pare che Bruscella esprima questo orientamento essenziale in un “disagio della civiltà”, nel rifiuto di una comunicazione apparentemente seduttiva – ma in realtà violenta e totalizzante - che riduce gli uomini a consumatori. Bruscella ne sfronda gli allori, ci mostra che l’antropologia della società che essa pretende di rappresentare è di natura quasi opposta, tutt’altro che tranquillizzante. In questo senso i suoi graffiti grotteschi fotografano una realtà oggettiva, raccontano in modo veritiero la nostra vita quotidiana.
“Arte contemporanea e moderna Roma”, testo in catalogo, 2008
Laura Ramoino
Silvano non abbandona mai il suo blocco da disegno, quasi fosse un’estensione di se stesso, ovunque si trovi osserva e traduce con i suoi segni tutto ciò che intorno lui trasmette sensazioni, storie, emozioni su e di chi incontra. Talvolta il foglio non basta a contenere tutto ciò che vorrebbe dire, il confine delle misure allora si espande e lascia ll’immaginazione il particolare mancante (una testa, una mano una parte del corpo). Molte delle sue tele sono dipinte anche sul retro, li interpreto come appunti, pensieri impazienti che on potevano aspettare di trovare la nuova tela su cui prendere vita. In alcuni casi il lavoro inizia dal retro, soprattutto quando ciò che deve essere espresso è da lui particolarmente sentito. Affrontare la tela bianca, in questi casi, diventa arduo, scavare così a fondo dentro se stesso diventa doloroso, girare la tela, nascondere il bianco intonso è un compromesso accettabile, una preparazione necessaria per poter comunicare con estrema sincerità e senza filtri ciò che verrà espresso quando si sentirà pronto a coprire quel bianco con i suoi segni gestuali ed istintivi. Ogni segno di penna, di china o di colore è una parola che insieme compongono il suo diario, una storia infinita, un dialogo continuo, una comunicazione di esperienze e di stati d’animo che rappresentano la storia della sua vita e per questo tutta ancora da scoprire. Non possiamo sapere oggi cosa racconteranno domani i segni di Silvano, perché nemmeno li può saperlo, quello che so con certezza è che sarà sempre qualcosa di vero.
Silvano non abbandona mai il suo blocco da disegno, quasi fosse un’estensione di se stesso, ovunque si trovi osserva e traduce con i suoi segni tutto ciò che intorno lui trasmette sensazioni, storie, emozioni su e di chi incontra. Talvolta il foglio non basta a contenere tutto ciò che vorrebbe dire, il confine delle misure allora si espande e lascia ll’immaginazione il particolare mancante (una testa, una mano una parte del corpo). Molte delle sue tele sono dipinte anche sul retro, li interpreto come appunti, pensieri impazienti che on potevano aspettare di trovare la nuova tela su cui prendere vita. In alcuni casi il lavoro inizia dal retro, soprattutto quando ciò che deve essere espresso è da lui particolarmente sentito. Affrontare la tela bianca, in questi casi, diventa arduo, scavare così a fondo dentro se stesso diventa doloroso, girare la tela, nascondere il bianco intonso è un compromesso accettabile, una preparazione necessaria per poter comunicare con estrema sincerità e senza filtri ciò che verrà espresso quando si sentirà pronto a coprire quel bianco con i suoi segni gestuali ed istintivi. Ogni segno di penna, di china o di colore è una parola che insieme compongono il suo diario, una storia infinita, un dialogo continuo, una comunicazione di esperienze e di stati d’animo che rappresentano la storia della sua vita e per questo tutta ancora da scoprire. Non possiamo sapere oggi cosa racconteranno domani i segni di Silvano, perché nemmeno li può saperlo, quello che so con certezza è che sarà sempre qualcosa di vero.
“XXXIV Premio Sulmona”, testo in catalogo, 2007
Giorgio Di Genova
[…] Altro temperamento grafico è Silvano Bruscella, col quale entriamo in tutt’altro mondo. L’artista è dotato di un’ottica a raggi X che gli permette di coniugare interno ed esterno dei corpi dei personaggi che, in virtù di una spregiudicata iperscrutazione, popolano i suoi disegni e la sua pittura. La sua è un’umanità drammatica e nel contempo grottesca, risultato di un’istintività espressiva ed esecutiva in presa diretta che determina una sorta di crogiolo in cui vengono fusi disegno infantile, deformazione espressionista, frontalità totemica e fermenti di art brut con una forza così impositiva, che di recente mi ha fatto definirlo il Basquiat nostrano, ma con la differenza che egli ha nel suo DNA un senso compositivo superiore a quello del “colored maudit statunitense” […].
[…] Altro temperamento grafico è Silvano Bruscella, col quale entriamo in tutt’altro mondo. L’artista è dotato di un’ottica a raggi X che gli permette di coniugare interno ed esterno dei corpi dei personaggi che, in virtù di una spregiudicata iperscrutazione, popolano i suoi disegni e la sua pittura. La sua è un’umanità drammatica e nel contempo grottesca, risultato di un’istintività espressiva ed esecutiva in presa diretta che determina una sorta di crogiolo in cui vengono fusi disegno infantile, deformazione espressionista, frontalità totemica e fermenti di art brut con una forza così impositiva, che di recente mi ha fatto definirlo il Basquiat nostrano, ma con la differenza che egli ha nel suo DNA un senso compositivo superiore a quello del “colored maudit statunitense” […].
Cyborg ibrido uomo-macchina (2005.11.01)
Silvano Bruscella
Il termine cyborg è stato coniato nel 1960 da Manfred E. Clynes e da Nathan S. Kline per dare una definizione alla figura di un uomo “migliorato” in grado di sopravvivere ai viaggi spaziali e alle esplorazioni di mondi extraterresti.
Una parola che fonda le sue radici nella fantascienza ma che, in breve tempo, diventa un fenomeno sempre più reale. Solo 55 anni dopo, il nostro mondo è popolato da cyborg e oggi possiamo distinguere e raggruppare in
categorie l’ibrido uomo-macchina. Il cyborg, la cui caratteristica principale è quella di essere la combinazione tra un organismo evoluto e la cultura tecnologica, non è da confondere con le altre due entità artificiali: il robot e l’androide. Il robot è un “apparato elettrodomestico relativamente autonomo in grado di assumere qualsiasi forma in funzione del suo uso”. L’androide, “che può essere un aneroide antropomorfico privo di elementi organici, o ancora umanoide, fabbricato tecnologicamente a partire da diversi elementi, fra cui sostanze organiche”.
Il cyborg, in fondo, è ancora uno di noi, mentre l’androide è una macchina umanizzata che rappresenta l’alterità, “una cosa creata, in un certo senso, per ingannarci crudelmente, per farci credere che è uno di noi”.
Quindi, chi è un cyborg?
La cultura letteraria aveva ripetutamente evocato “la figura dell’uomo artificiale, che può essere ricondotta ai miti greci di Talos (l’uomo di bronzo) e di Galatea, in periodo ellenistico. L’epoca moderna fu affascinata dagli automi, al punto che sia Cartesio che Leibniz e Pascal si posero il problema di un essere umano meccanico”. Il tentativo di Charles Babbage di creare una macchina per il calcolo, nel 1829, avrebbe potuto cambiare il corso della storia della tecnologia se fosse stato coronato da successo. Nella prima metà del XX secolo alcune opere di letteratura, trattando il tema degli esseri umani artificiali, sono il primo sintomo di un più profondo turbamento, cioè la domanda se l’Universo sia una macchina o uno spirito. Tutti questi sforzi di affrontare l’argomento, sarebbero rimasti in una zona d’ombra, a metà tra la scienza e la fantascienza, se non fosse stato per i cambiamenti indotti dalla Seconda Guerra Mondiale. Per l’esercito, il corpo umano, diviene il risultato dell’addestramento alla sopravvivenza in condizioni estreme, per vincere l’abuso di autorità, per combattere il sonno, la paura e il rimpianto, usando farmaci che consentano di “uccidere con il sorriso”. Il soldato non solo rappresenta il primo vero cyborg, “ma è anche l’esempio di come si possa migliorare il proprio corpo per svolgere compiti specifici al servizio di una multinazionale”.
In conclusione, l’essere umano può essere considerato un cyborg, non dal momento in cui usa ogni sorta di dispositivo per migliorare la propria vita (abiti, scarpe, occhiali, bicicletta o automobile), ma quando tende ad integrare componenti esterne, per espandere le funzioni che autoregolano il corpo e potenziano le prestazioni
cosiddette normali, attraverso soluzioni tecniche e tecnologiche che hanno la funzione di migliorare gli attributi fisici originari.
Considero il cyborg l’ultimo anello della “catena evolutiva umana”, pur non essendo il risultato di lenti cambiamenti
generazionali, bensì un veloce processo sollecitato dalle fiction televisive e dagli interessi della globalizzazione capitalistica (instancabili lavoratori), riflettendo sui cambiamenti di una società ossessionata dal consumo e dalla
perfezione fisica, nella quale l’uomo è disposto ad autoregolarsi, per rispondere con maggior efficienza alle esigenze produttive.
Il termine cyborg è stato coniato nel 1960 da Manfred E. Clynes e da Nathan S. Kline per dare una definizione alla figura di un uomo “migliorato” in grado di sopravvivere ai viaggi spaziali e alle esplorazioni di mondi extraterresti.
Una parola che fonda le sue radici nella fantascienza ma che, in breve tempo, diventa un fenomeno sempre più reale. Solo 55 anni dopo, il nostro mondo è popolato da cyborg e oggi possiamo distinguere e raggruppare in
categorie l’ibrido uomo-macchina. Il cyborg, la cui caratteristica principale è quella di essere la combinazione tra un organismo evoluto e la cultura tecnologica, non è da confondere con le altre due entità artificiali: il robot e l’androide. Il robot è un “apparato elettrodomestico relativamente autonomo in grado di assumere qualsiasi forma in funzione del suo uso”. L’androide, “che può essere un aneroide antropomorfico privo di elementi organici, o ancora umanoide, fabbricato tecnologicamente a partire da diversi elementi, fra cui sostanze organiche”.
Il cyborg, in fondo, è ancora uno di noi, mentre l’androide è una macchina umanizzata che rappresenta l’alterità, “una cosa creata, in un certo senso, per ingannarci crudelmente, per farci credere che è uno di noi”.
Quindi, chi è un cyborg?
La cultura letteraria aveva ripetutamente evocato “la figura dell’uomo artificiale, che può essere ricondotta ai miti greci di Talos (l’uomo di bronzo) e di Galatea, in periodo ellenistico. L’epoca moderna fu affascinata dagli automi, al punto che sia Cartesio che Leibniz e Pascal si posero il problema di un essere umano meccanico”. Il tentativo di Charles Babbage di creare una macchina per il calcolo, nel 1829, avrebbe potuto cambiare il corso della storia della tecnologia se fosse stato coronato da successo. Nella prima metà del XX secolo alcune opere di letteratura, trattando il tema degli esseri umani artificiali, sono il primo sintomo di un più profondo turbamento, cioè la domanda se l’Universo sia una macchina o uno spirito. Tutti questi sforzi di affrontare l’argomento, sarebbero rimasti in una zona d’ombra, a metà tra la scienza e la fantascienza, se non fosse stato per i cambiamenti indotti dalla Seconda Guerra Mondiale. Per l’esercito, il corpo umano, diviene il risultato dell’addestramento alla sopravvivenza in condizioni estreme, per vincere l’abuso di autorità, per combattere il sonno, la paura e il rimpianto, usando farmaci che consentano di “uccidere con il sorriso”. Il soldato non solo rappresenta il primo vero cyborg, “ma è anche l’esempio di come si possa migliorare il proprio corpo per svolgere compiti specifici al servizio di una multinazionale”.
In conclusione, l’essere umano può essere considerato un cyborg, non dal momento in cui usa ogni sorta di dispositivo per migliorare la propria vita (abiti, scarpe, occhiali, bicicletta o automobile), ma quando tende ad integrare componenti esterne, per espandere le funzioni che autoregolano il corpo e potenziano le prestazioni
cosiddette normali, attraverso soluzioni tecniche e tecnologiche che hanno la funzione di migliorare gli attributi fisici originari.
Considero il cyborg l’ultimo anello della “catena evolutiva umana”, pur non essendo il risultato di lenti cambiamenti
generazionali, bensì un veloce processo sollecitato dalle fiction televisive e dagli interessi della globalizzazione capitalistica (instancabili lavoratori), riflettendo sui cambiamenti di una società ossessionata dal consumo e dalla
perfezione fisica, nella quale l’uomo è disposto ad autoregolarsi, per rispondere con maggior efficienza alle esigenze produttive.